Quel Gobbo fiero che ha visto costruire la storia d'Italia

Quel Gobbo fiero che ha visto costruire la storia d'Italia

“Gli erbaggi, purché non se ne abusi, sono un elemento di igiene della cucina”. Lo scrive Pellegrino Artusi nel noto manuale “La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”. Un foodie che ci manda continui suggerimenti dal passato.Ragionando in questo ritorno di rigori invernali con un’anziana conoscente, qualche giorno fa ho acquistato al mercato dei cardi. Cardoni, gobbi, chiamateli come volete. Sono parenti stretti del carciofo, con cui condividono l’origine nel carduccio selvatico (avete presente il ribelle simbolo scozzese?) e da cui si è allontanato a seguito delle selezioni in campo.

A differenza del carciofo il suo capolino non è commestibile, mentre lo sono le coste, molto sviluppate, intenerite dalle gelate tardo autunnali, smorzate del sapore amaro dall’assenza di luce che le fa bianche. Sì perché quella forma ricurva, molto pronunciata in un passato neppure troppo lontano legato a ricette di nonne e mamme, era dovuta alla metodologia colturale. Ad un certo punto della crescita si usava parzialmente interrarlo per fargli meglio sopportare la rigidità della stagione, ma soprattutto per mantenerlo bianco, più dolce e cedevole. Pratica quasi in disuso, che non gli faceva incontrare lo sguardo del sole e dunque non dava il via alla fotosintesi clorofilliana, rea di mutarne il candore in verde.“Resterà sui banchi più per poco – mi spiegava la signora porgendomi due mazzi carnosi dal banco – lo raccogliamo da novembre a marzo, ma quest’anno le gelate hanno sciupato molte piante”. Un gustoso abbinamento? Con acciughe sotto sale. Non a caso in Piemonte cardo e bagna cauda (la tipica salsa calda a base di aglio, olio extravergine d’oliva e acciughe salate in cui s’intingono verdure invernali) vivono un binomio perfetto.

In Abruzzo il giorno di Natale tradizione vuole che si consumi la minestra col cardone (un brodo di carne arricchito dell’ortaggio sbollentato ben strizzato, uova, parmigiano, soffritto di rigaglie di pollo e tacchino). Compare tra gli ingredienti della siciliana caponata di verdure insieme a melanzane, patate, spinaci, cavolfiore, sedano. In Toscana prolifera dagli anni Settanta in Val di Cornia (lembo meridionale della provincia di Livorno, in piena Maremma) e nella provincia apuana di Massa Carrara. Gobbo per quell’aspetto ripiegato tipico del Monferrato dove è croccante, dolce e meno fibroso del solito.La storia d’Italia l’hanno costruita anche uomini e donne che hanno lavorato la terra, da nord a sud. E il cardo fa parte della nostra storia gastronomica. Di cui magari ci siamo in parte dimenticati almeno nelle cucine di casa ma che ci piace tornare a raccontare. Carnoso nelle coste più tenere, coriaceo nelle esterne, un po’ amarognolo. È ottimo come sformato (con l’aggiunta di besciamella, uova e formaggio) accompagnato dai fegatelli di pollo imbastiti alla toscana, ma fa buona mostra di sé anche in umido con le salsicce, prima sbollentato e poi passato in padella a prender colore con qualche pezzettodi pomodoro.

Gli estimatori ne consumano le parti giovani in pinzimonio oppure lessato e condito con un filo d’olio. Che dire poi della versione fritta…L’Italia della tavola è generosa di storie. Quella del cardo è una.

Arrivato nel Mediterraneo dall’Etiopia e poi dall’Egitto, anticamente (ma in molte piccole comunità agricole ancora oggi) i suoi semi servivano per ottenere il caglio. Nel Cinquecento due medici della corte sabauda ne sdoganano l’utilizzo annotando: “si mangiano ordinariamente nell’autunno e nell’inverno fatti teneri e bianchi sotto terra”.Ci piacerebbe raccontarne altre di queste storie. Partendo da un nomignolo (come in questo caso), da una ricetta, da un aneddoto. Chi si fa avanti per la prossima?

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