Un pane antico che guarda al futuro: il testarolo

Un pane antico che guarda al futuro: il testarolo

Dal nome parrebbe gli mancasse qualche venerdì. In realtà il testarolo pontremolese si chiama così perché viene cotto nei testi (contenitori rotondi, in metallo o in terracotta). Uno sopra e uno sotto, a contenerlo in un piccolo forno da campo, impiegato un tempo nelle transumanze, anticamente forgiato a mano dall’argille, finché nell’Ottocento si tramutò in ghisa. Se lo portavano dietro al seguito delle greggi, per cuocerci questa specie di pane azzimo, ma anche la carne, le verdure, qualsiasi cosa passasse per la testa. Un incastro perfetto: bastava un po’ di brace ed il gioco era fatto. Come oggi, del resto.

Ci troviamo in Lunigiana, antica terra incastonata fra Liguria ed Emilia Romagna. Dal punto di vista amministrativo: l’ultimo ramo di Toscana proteso a nord nell’Appennino, un po’ spezzina (superato il confine ligure) un po’ massese (Massa Carrara è la provincia toscana più settentrionale), dalla forte influenza parmense (basta ascoltarli parlare). In realtà si tratta di terra d’incroci, fatta a sé. Né una né l’altra: semplicemente Lunigiana, con una geografia partita dalla foce del fiume Magra attorno a cui vivevano tribù fiere e robuste, conquistate con difficoltà dai Romani, indomite alleate di Annibale nella Seconda Guerra Punica.

Talmente focose e selvagge che per averne la meglio, i Romani tra il 180 e il 179 a. C. furono costretti a deportare i Liguri Apuani nel Sannio. Scrive infatti Tito: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”.
Bene, è risalendo a ritroso il Magra che nascono e ancora vivono prodotti come le torte d’erbi e i testaroli i panigacci e i tanti pani come la Marocca di Casola dove predomina la farina di castagne, o il pane di Regnano.
Oggi l’economia lunigianese richiede nuova linfa. La campagna, i boschi sono stati lasciati andare, quando invece avrebbero ancora molto da dare. “La maggior parte dei prodotti alimentari che hanno costruito la storia della valle derivano dalla farina di frumento, per la maggior parte coltivata fuori. Allora ci siamo chiesti come impiegarli per evitare il degrado e l’abbandono della campagna -  racconta Stefano Menini, agronomo presso la Comunità Montana della Lunigiana – creando possibilità economiche che ricadessero sul territorio”.

È stato commissionato uno studio alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa per rintracciare i vecchi grani autoctoni e individuarne di nuovi capaci di mettere radici da queste parti, in modo da ricostruire una filiera tutta locale che, partita dal campo, si chiudesse nei mulini a pietra ancora esistenti. Il progetto si chiama Frulun e coinvolge testarolo, pagnotte e panigacci al fine di individuare le giuste combinazioni di grani teneri adatte a realizzare i prodotti del domani. Dopo oltre due anni di prove in campo, le farine sono state testate e a breve anche i tanti alimenti della “panificazione” lunigianese avranno la loro filiera. Corta, cortissima, che darà nuovamente voce a quegli antichi avi costieri che si opposero strenuamente all’avanzata straniera. Romana un tempo, di farine oggi.

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