Pane simbolo di vita e di convivialità
Lo si spezza e lo si dona in segno di fratellanza, sbirciando al suo interno o nei dintorni del piatto per bearci con l’occhio del succulento companatico. Il pane fa “panino”anche quando non lo si farcisce… Basta che si accompagni con qualcosa di buono (un formaggio, un salume…) e lo spuntino, all’insegna della semplicità e tradizione, è fatto.
Da qui l’idea di partire per un viaggio nei migliori pani d’Italia. Il Belpaese è infatti ricco di giacimenti gastronomici (per dirla alla Davide Paolini, critico gastronomico del Sole 24 Ore) e conta una vasta varietà di filoni, pani, bozze, michette che valgono molto più di un alimento. Perché in sé racchiudono tante storie, raccontano luoghi e tradizioni. E siccome a noi piace coccolarlo il nostro palato, sbocconcellando croste e mollica assaggeremo le tante delizie nascoste nelle pieghe dello Stivale.
Senza snobbare ciò che sta oltre confine, anche perché nei consumi siamo battuti da Germania, Danimarca e Austria (rispettivamente con 84, 72 e 70 kg annui consumati a testa secondo un censimento Insee del 1999, contro i nostri 66 kg che ci piazzano fuori dal podio) ma concentrando l’attenzione in terra italica, da nord a sud passando per le isole di sfilatini ne troviamo a decine, molti dei quali fanno parte del patrimonio tradizionale, tra cui cinque con riconoscimenti e tutela europei (Dop – Denominazione di Origine Protetta, Igp – Indicazione Geografica Protetta): il pane di Matera in Basilicata (Igp), quello di Genzano (Igp), il pugliese di Altamura (primo in Europa a fregiarsi della Dop), la coppia Ferrarese (Igp) e la siciliana Pagnotta del Dittaino (Dop).
L’idea è dunque di raccontare l’Italia attraverso il pane. Scoprendo ad esempio che alla Toscana è insipido o come si dice da quelle parti “sciocco”, vale a dire privo di sale perché più indicato per accompagnare i tanti salumi ricchi di sapore, patrimonio di un’attività norcina strettamente legata alla campagna e alle tavole contadine. Quando il sale costava ma la pagnotta era l’alimento principe della tavola e rinunciarvi era impensabile. Poi le abitudini sono cambiate, i consumi di mollica sono andati riducendosi, ma la tradizione in terra di Dante e Boccaccio è rimasta e i filoni si continuano ad impastare “sciapi”.